Racconterò di come mi sarebbe toccato d’andare, via dal castello in affitto, estradato dalla mia più definitiva cornice. E di come questo andare avrebbe preso un certo tempo. Racconterò, in sostanza, del mio andare lento e incerto. Certo, io vi risiedevo (o vi avevo avuto residenza) ma non tutto il castello era mio. Avevo accesso e ne abitavo solo una trascurabile porzione che il Signorino aveva raccapezzato per ospitalità di vario tipo: un appartamento marginale cui la vista della valle, dei paesi così serali e frastornati, era negata. Questa mia residenza durevole al castello era stata, io credo, l’anomalia. Il Signorino, il padrone vero, il solo cui spettasse permanere e fruttificare (ben oltre l’introito accessorio che, per lui, io significavo) faceva il cane con le sue cagne, setterine da caccia, sposine, e contava i minuti alla mia partenza. Si metteva in tasca più coi tedeschi villeggianti in dieci giorni che con me in sei mesi, io che davo quel che potevo. Mi detestava e non solo a questo proposito. Su brani di garza stracciata incideva distici irregolari che avevano per oggetto oltraggiose ricostruzioni della mia persona.

Dov’aspetta la tua squadra di gonzi,

oh my loneliest Puppy Duck?

Non canta più il tuo corno, affondi.

Spenti sono anche i tuoi già spenti bagordi,

sofferenza, mestizia, miseria, quack quack…

Me l’inchiodava alla porta carta di zucchero non appena m’allontanavo dall’appartamento, una volta al giorno, per la mia passeggiata di salute prima del tramonto. Questo e nient’altro rimaneva della predilezione che il Signorino aveva avuto per me (che c’era stata, ne sono certo, la mia permanenza al castello l’attestava, oltre ogni ragionevole dubbio).

La sua Alta Magione, il castello nel castello da dove egli amministrava ogni sua viziosità, aveva smesso d’interrogarmi: non c’era là dentro il Misericordioso Polimorfo Paterno che avevo trasognato bensì un perverso, uno strozzino, aquilone di carta pecora nel suo spettrale e arioso giganteggiare o, al sopire della sua scabrosa finzione, l’incarnazione della noia (tale e quale a una barchetta sul pelo dell’acqua di un lago stanco) e del silenzio, procuratore della bugia, che interdice ogni risposta.

Preparavo i bagagli insomma o qualcosa da dir tale. Era il 26 di giugno. Lo conclusi facendo ipotesi sulla luce che trovavo accecante ma non per questo ingiusta. Avevo perso la memoria delle stanze al tempo del mio arrivo. Tutti gli oggetti mi si presentavano parimenti come miei e non miei. Nell’appartamento al castello ero senza compagnia da un mese, forse da un mese e mezzo. Cedetti. Pregai che il Sodalizio venisse per sostenermi una volta ancora. Chi aveva perso chi?

Benché nessuno me lo avesse proibito, non salivo più sul muricciolo d’affaccio del campanile per guardare la massa estesa delle mura. Le poche volte che vi ero andato, sconfitte le vertigini, avevo pensato: io dormo nel ventre di un leone che dorme. Avevo anche notato che, a seconda della posizione da cui si tendeva l’orecchio, i versi delle cagne suonavano diversamente: latrati ciechi che sapevano montare sui timpani a tentoni e concertarsi, tonali, fino a passare per una canzone di chiesa. La pezzatina di miele, detta la Favorita, si godeva gli ultimi mesi d’adolescenza che – avevo l’impressione – stesse durando ben più della mia che s’era chiusa da un giorno all’altro e per caso. Come era diventata seria la mia allegria. Dal campanile seguivo le modulazioni della pezzatina – un po’ per tenermi sveglio e un po’ per farmi male – lungo tutto l’arco dei suoi entusiasmi: ovunque il Signorino si recasse non si dormiva mai, lui che nel desiderio altrui alloggiava prospero. Che cosa avesse pensato di me, l’anno prima, per tirarmi in secca dal mio vagabondare e istallarmi nel castello, solo il Signorino lo sapeva. L’appartamento mi era stato erogato, avevo creduto, per retribuirmi da questo stato in cui versavo quando il Signorino m’aveva incontrato e portato con sé. Mi rinfrancava l’idea che volesse solo un amico discreto e nottambulo che vegliasse con lui e io sapevo vegliare. Sapevo stare in adagio, allo scoperto. Rimanere perduto. Dalle stanze dell’Alta Magione arrivava alle mie e bussava, guardami Puppy Duck, diceva, lasciando cadere una spallina. Di seguito si esibiva per i miei occhi scolopendre. Invano taceva il bosco, sperando che una buona volta si saziasse di quei suoi numeri o d’avere me come preda. Ma, sempre, non appena mattina fischiava alle cagne, che la gelosia nei miei confronti aveva reso infallibili, per guidarle dietro alla pernice, all’oca selvatica. Sentivo il bosco piangere. Non posso fare niente, dicevo, se non guardare. E ancora il bosco piangeva.

Provai a trattenerlo. Mi intese l’allodola che strozzò il verso del giorno. Chiusi ogni spiraglio di luce. Lo incantai con la sua stessa fame di notte. Rimaneva con me da tre giorni.

Mettesti il corpo, io disposi le parole. Apostolino Puppy Duck. In qualche modo le tue repliche si fecero più vere. La Music Hall infinita nel mio appartamento diventò la fitta tragedia dei topi. Che cosa pativano i tuoi personaggi, oh Signorino! Parevano tutti fratelli miei, non più tuoi doppi e disinibiti birbanti. Pensasti che fosse colpa mia e forse non sbagliavi. Non mi diverto più con Puppy Duck, dicevano le tue scarpe. Puppy Duck sei l’incubo del trapasso, era l’idea che andavi raffinando. E intanto, senza saperlo, cedevi terreno e saresti rimasto, io credo, se mi si fosse offerto un altro poco di margine. Mi pareva che tu intendessi il mio messaggio: tanto bastava al mio appagamento. Fino a quando le cagne esplosero il recinto, versandosi in strada, gonfie di risentimento. Quel che l’allodola ti aveva nascosto, la tua muta lo brandiva, lo bussava fino alla porta carta di zucchero che più che del tuo castello, più che del mio rifugio, sembrava la soglia o il diaframma di uno spento, pacifico, principato. La muta di spose abbaiava, rovescialo. Allora loro salirono o tu scendesti, le sellasti – ancora la pezzatina di miele aveva gli occhi di cera bianca, la scorsi subito fra le altre, e mordeva la coda alle sorelle in branco per non rimanere indietro ma già onorava la legge che chi ti ama deve saper cacciare – e prima di scomparire nel bosco e ridere di me, come avresti fatto da quel giorno in poi, mi dichiarasti l’odio in uno sguardo: c’ero quasi riuscito. Uscisti dal mio inganno non per volere ma per vergogna d’avervi indugiato. A un passo dall’insegnarti qualcosa e fare del tuo attaccamento una legge, mi lasciasti. Terminava il campeggio del tasso dalle parti del nocciolo, la festa degli scoiattoli, le sfilate degli ardeidi. Madre cinghiale pietosa marciò coi piccoli di seta sotto il pelo d’acqua nello stagno. Scendesti con la muta, o su di essa, a pretendere l’usufrutto dal bosco antico, fiammeggiando.

Io credo che sia da queste parti che inizia in qualche modo la storia che si stava aspettando: la storia di un riscatto e di una fondazione. Mi dispiacerebbe deludere o creare confusione. Dovessi farlo vorrei essere perdonato.

Rimasi solo per un tempo indefinito. Per quanto sia patetico giocai al Ritorno del Signorino o al suo essere rimasto. C’erano ancora i costumi e gli asciugamani sporchi di trucco, minime risorse per alimentare la finzione. Ogni storia che prorompeva da me parlava di me e di lui.    In particolar modo questa immagine tornava sempre: io come un’anima già trapassata, e quindi alata, in volo sulle tenute del castello, sopra gli animali e il regno loro. Talvolta gli occhi si allontanavano dal corpo, altre volte il corpo si allontanava dagli occhi. Ricorreva un sogno di me, del mio estradato ed esile me, che setacciavo un crepaccio dove infine trovavo il Signorino come reduce da una caduta, senza più la sua muta di scorta. Allora fasciavo un suo arto ferito, rimproverandolo come una mamma. Com’ero triste di sognare sapendo di sognare. Iniziai a dormire per terra per stare più vicino al centro della casa. Come un sismologo pensavo che il suolo avrebbe parlato: l’urto del dolore avrebbe provocato un’onda ma non sapevo se dall’urto sarebbe partita, come espulsa, o se all’urto sarebbe giunta, come chiamata. Intanto il mio dormire si fece più largo. Quasi stanziale. Essi allora vennero a prendermi. I campanelli del Sodalizio frastagliarono quel sonno.

Uscirono da uno scrigno come api coloniali e mi insegnarono il gioco del sé. L’appartamento nel castello dimostrò la sua reale dimensione: quel che pareva un abitacolo per le mie pene o il camerino del Signorino e le sue manie, si dispiegò come il memorabile salone da fiera di una città interiore. Cominciarono queste loro feste che divennero anche le mie: parlare e viziarci, far tardi e poi addormentarsi schiantati. Ognun diverso da tutti ma non meno centrale nell’incessante disegnarsi del Sodalizio. Oggi è il giorno buono, si ripeteva spesso, aprendo fasi di insperata attesa che potevano sciogliersi a mezzogiorno senza rimpianti. Di frequente non sapevo a cosa credere. Le donne del Sodalizio valevano quanto noi e mai ne avevo viste così tante. Le interrogavo separatamente: come potevano camminare o guidare con gambe così corte o respirare con polmoni minuscoli? Eppure fumavano come noi, quanto noi, che scrivevamo canzoni anche e solo per farle ridere. Raccoglievo infiniti loro capelli per farne bionde corde per l’arpa, strumento del mattino. L’Alta Magione balenava dalle finestre sempre aperte solo per disapprovarci ma la musica nascondeva i passi insistenti del Signorino sulla ghiaia di sotto o il ruggito della muta che calava nel bosco. Non potevo più occuparmene. Tenemmo qualche assemblea. Il Sodalizio mi iniziò alla politica e alla geografia. La settimana del latino fu un fiasco. Le mie dita seguivano sul foglio innumerevoli tracce. Mi dissero, Puppy Duck tu ci hai riuniti, non ti dimenticheremo. Mi spiegarono che l’andare non era un destino, neanche un bisogno, solo un volere. Com’erano grandi. Puppy Duck tu ci hai riuniti, non ti dimenticheremo.E come ridevo di frasi come quella. Voi mi avete inventato, amici, fratelli, sorelle.Ci battezzammo. Credo che l’inverno lo si fece insieme, all’appartamento così bizzarramente moltiplicato. Ci facemmo bastare le trapunte che avevo in dotazione. Sorse la primavera. Il Sodalizio si diradò, come da promessa. Cominciò una nuova tristezza. La sentivano questi miei organi insorti.  

Alla luce di un cerino mi guardavo le mani. Erano anni o mesi quelli di cui avevo perso il conto? Da quanto mancava il Sodalizio? Quel 26 giugno aspettavo dall’appartamento: ricorreva Sant’Esmeraldo, il martire insonne che il diavolo aveva tentato con la zampa di pollo. A tratti riposavo su una sedia di paglia lasciata vicino al muro, poi mi alzavo e lasciavo che la mia vista si scolorisse nell’abbracciare l’appartamento tutto insieme. Sul tavolo i distici del Signorino facevano un mucchio. Tutti insieme figuravano come l’ordine definitivo di sfratto.

Che tremenda stasi. Sarei dunque barcollato via, disonorando la storia. Ed era il tempo di cedere che mi fu concessa la grazia di un ultimo soccorso.

Prima che potessi vedere il Sodalizio, lo ascoltai risalire la strada. Arrivavano con la consueta dotazione di mezzi di fortuna. Il parcheggio sotto gli olivi si fece pieno delle loro vetture, bagatelle, scherzi, improvvisazioni arrangiate che smettevano di ronzare una volta spente, di fianco alla mia berlina grigio perla che, ferma dal giorno in cui ero arrivato al castello, reggeva la collina come il cardine di una diga. Sul piazzale di ghiaia li vidi comparire e addensarsi in un sol corpo, proprietà singolare del Sodalizio che amministrava ordine e distruzione con equipollenza. Mi mostrai al Sodalizio. Loro esibirono il saluto, io risposi. L’uniforme serietà dei nostri costumi (un’eleganza dimessa, quasi ferita) permise alla commozione di debuttare entro i nostri ranghi: ricorsiva come un rondò si fece pendolo. Indicai loro la porta carta di zucchero che già, così bene, conoscevano. Neanche loro serbavano memoria dei giorni del mio abbandono. Puppy Duck, dissero, a noi succede così. Cose del genere succedevano, succedevano a noi. Lunghe dimenticanze, sparizioni. Ci succedevano. Sarebbero successe anche a me, da lì in avanti, in più modi: malaccortezze che avrei recapitato ad altri indirizzi. Era il 26 giugno. Sant’Esmeraldo. Al castello c’ero entrato i primi giorni d’ottobre dell’anno precedente.

Quando li ebbi tutti intorno, coi volti rigati, devoti e silenziosi, l’inverno che il Sodalizio aveva trascorso con me al castello era un solo canto tornato in auge, splendidamente. Io caddi in un trillo come sperdendomi.

Ci si dedicò al recupero di quegli oggetti scagliati contro il muro, i clerici vaganti della nostra grande università notturna. Le donne, madri e mondine, si diedero a cercare i mestoli e le chele di granchio. Ne rinvennero le tracce fino a trovarli, ancora in salute: ogni cosa che dal desco sia volata è, nella nostra storia, propizia d’amore e di per sé stessa benedetta. Ci impegnammo a chiudere una buchetta che si era fatta nel pavimento e che noi, per gioco, la si chiamava stanza del tesoro. Tolta la pietra che stava lì per chiuderla, sollevandone il sesamo, ci trovammo quasi niente. E un attimo dopo, riposta la pietra, ci fu, senza avviso, la stanza irreperibile o interdetta. I compagni del Sodalizio, in camera, si misero a piegare le coperte dell’inverno, ancora svolte lì o là, perché le si potesse imbustare e magari farne bottino, portarle via. Erano beni di grande valore ma di farlo sentii che l’anima non mi bastava. Per non pensare a cosa si compiva in camera feci di me un fenicio o un Efesto. Profilai un nuovo vetro, fatto con le mie mani, per pura espiazione, e lo sigillai al telaio in legno col fernovus. Gettai via l’originale che, in una delle notti col Sodalizio, un mio secco colpo di testa aveva franto. Fumammo quel che c’era da fumare, qualcuno provò a finire il marsala che si era tentato di fare da soli cagionandosi una buffissima colica. 

E così, eccoci a un altro addio. Poi un compagno obiettò: disse che mi amava. Ma questo non cambiava niente data la mobilità, nel Sodalizio, del borsino dell’amore. Io frattanto avevo smesso di ascoltare. Indicavo la porta come un cieco o come un idiota. Con l’ultima riverenza uscirono, per farmi contento o lasciarmi affondare. In fondo, come dicevano, io li avevo già riuniti e salvati. Il Sodalizio si levò com’era arrivato, spegnendosi come una risata. Rimanevano le porte carta di zucchero, unica cosa su cui ancora oggi potrei giurare: me le ero ancorate per il mio vizio di iniziare dalle porte a ricordare. Ultimi congedai gli animali del castello. Eppure, dispiace ammetterlo, la pena mi ha espropriato dei singoli momenti che ebbi con ciascuno: il gatto prototipico, il topo-nella-dispensa, tutti iniziati al mistero e di colpo orfani, dotati di parola (si era, noi, dei sentimentali. E sì, quest’idea coincideva con una manifesta ipotesi di superiorità. Io non avevo niente e, omologhi a me, tutti gli altri. Si è fatto un grande sforzo di tenere duro, come partecipando a una gara già finita, stringendo patti la cui giurisdizione è senza terra. Ogni legge che si fece in modo vigesse nasceva per rispondere a una provocazione) ma voglio giurare che per due volte venne una volpe alla mia porta, credo per mangiare la mia spazzatura. Ritenni per molto tempo indispensabile questo episodio. Io giuro su quel che ho di più caro: due volte venne da me una volpe. Il suo aspetto? Regale. Il suo temperamento? Efferato. La colsi come il più infingardo dei bricconi, fra la mia spazzatura, sacchi neri sulla indubitabile porta, porta carta di zucchero. L’alba già borseggiava la notte quando lasciai il castello.

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