«Morendo, il padre Bessarione disse che il monaco deve essere come i cherubini e  i serafini, tutto  occhi.»

Vite e detti dei padri del deserto, “Bessarione”, §11

Sul dorso del monte Q. sorgeva, nel secolo XVII, un monastero che, da intitolato a Sant’Andrea, passò a un punto e per breve tempo sotto la protezione del venerabile padre Bessarione d’Egitto, vissuto tra il quarto e il quinto secolo dell’era cristiana, e il cui culto, affatto marginale nella dottrina cattolica, era stato introdotto nelle remote campagne lunigiane, in cui ebbe trascurabile vita, all’inizio del Seicento da alcuni dotti nobili locali col pallino per l’antiquariato, rampolli d’una famiglia di cui le cronache hanno conservato il nome con incertezza, ma che gli storici suppongono imparentati coi Malaspina. Costoro, smaniosi d’impinzare le proprie Wunderkammer, nel corso d’un viaggio giovanile s’erano spinti oltre le coste egizie, nel cuore del Vicino Oriente, in una terra che oramai non aveva più parentela con quella tratteggiata da Erodoto, e la cui scrittura, priva da più d’un millennio d’ogni analogia con quella liberamente interpretata prima da Orapollo, che la tenne a battesimo, poi da Valeriano, che la divulgò in Italia cent’anni avanti, e che di lì a qualche anno sarebbe passata sotto le lenti del Kircher nella Lingua Ægyptiaca restituta e del Browne in alcuni mirabili capitoli della Pseudodoxia epidemica, s’era ora allungata e stilizzata e, tramutata in sorta di bizzarro corsivo, veniva adoperata da Sha’rani per comporre le sue Vite dei santi musulmani.

In simili regioni furono acquistati per una miseria taluni manoscritti copti in un bazar di Menfi che, tradotti nell’umida e umbratile villa familiare, eretta nel mezzo d’un bosco a nord-est di Sarzana, vennero dipoi dai collezionisti posti in una teca di cristallo e, dopo essersi costoro vanamente ripromessi di trasporli in lingua viva, ivi dimenticaronli per una trentina d’anni, fino a che ossia, ridottesi le sostanze familiari in stato pietoso, figli e nipoti viderosi costretti a vender la villa per trasferirsi in più modesta residenza, e con la villa pure la Wunderkammer, la quale fu smantellata dai nuovi proprietari, che la regalarono quasi a rigattieri e curiosi di sorta.

Destino volle che uno dei monaci dell’abbazia di Sant’Andrea, che aveva una vaga conoscenza del greco e una poco men nebulosa del copto, finì in possesso del detto codice: era quello una copia della sezione Beta degli Apophthegmata Patrum, difficile stabilire se un’antica trascrizione copta o una ri-traduzione in copto dal greco, in cui l’usura aveva reso illeggibili le parti dedicate a Basilio, Beniamino e Biarè, mentre chiarissimi erano gli apoftegmi di Bessarione, dei quali l’undicesimo s’impresse con forza peculiare nella mente del monaco. Veniva tale detto attribuito dall’anonimo compilatore all’egiziano moribondo, il quale avrebbe asserito, ai ternefini oramai delle tribolazioni sue mortali, che il monaco, al pari di serafini e cherubini, debba esser «tutto occhi». Simile misera testimonianza, in tutto secondaria rispetto alla dottrina generale della silloge,  esercitò sul monaco lunigiano, che di Bessarione punto sapeva se non essere un santo orientale, e niente affatto degli Apophthegmata, una malìa tale da impedirgli il sonno o la preghiera al segno che, tentando d’evocare le immagini santissime dei Vangeli, quelle non men sante, ma ora come malate, e forse demoniache dei serafini e dei cherubini ch’erano «tutt’occhi», suscitavangli dai recessi dello spirito, impedendogli ogni altra attività che non fosse il contemplare quegli stessi oculi che da dentro la sua mente già lo contemplavano. Le ragioni di codesta ossessione, se l’è portate seco in tomba; rimane il fatto certo che innumerevoli furono le notti che questi consumò nella sua cella, rivoltandosi sul pavimento, dilaniato dal maledetto precetto, non riuscendosi a decidere come intendere il misterioso comando, il quale perentorio imponevasi, formulato com’era nella lingua degli antichi asceti, ordinando agli occhi di un monaco di non esser da meno – o di meno – di quelli degli angeli: più d’una volta sognò di sterminare i suoi compagni, e toltigli i bulbi dalle orbite cucirseli sulla pelle, per scoppiare finalmente in risa di gioia e, cadendo genuflesso ai piedi della Croce, ringraziare il Signore per averlo illuminato, per averlo tratto via dai tenebrori del dubbio e dell’esitazione.

Non confessò mai codeste fantasie, che comunque dileguaronsi di colpo una notte quando, finalmente col cervello schiarito e i nervi ristorati, comprese il suo dovere.

Vulgata vuole che il Panopticon sia frutto della mente secolarizzata di Jeremy Bentham e che poco altro sia che il progetto di un carcere ideale e paranoico, utile a fungere da comoda dispensa da cui i sociologi possano attingere con piccolo sforzo per cavarne delle metafore belle e pronte, con le quali ridar linfa ai loro trattati gonfi di periodi e anemici d’idee. Men noto è che Bentham altro non fece che riproporre sbiaditamente il progetto di quel monaco lunigiano che lo precedette di un secolo e mezzo, e di cui ebbe forse notizia per tramite d’un corrispondente italiano.

Il monaco infatti, corroborato da rinnovata fede e sentendosi come investito d’un ministero divino, si precipitò di buon ora alla mensa per annunciare il progetto ai fratelli: il monastero, che era stato fino a quel momento sotto la protezione di Sant’Andrea, avrebbe ora dovuto intitolarsi a Padre Bessarione, e da monastero divenire vero panopticon – poiché del vocabolo costui fu il primo onomaturgo – in cui osservare, a imitazione e onore di Dio onnipotente, il mondo in tutte le sue inezie, nella totalità delle sue pieghe. Il precetto di Bessarione, che la provvidenza avevagli fatto capitare sotto mano, prescriveva dunque al monaco l’onniscienza, essendo la vista il sommo tra i sensi, e quello che più di ogni altro si presta a simbolo ed epitome della conoscenza tutta: che il monaco debba essere tutt’occhi significa che non è lecito che gli sfugga un particolare del mondo, che l’ignoranza, l’ignoranza della presenza d’una pulce sul lembo di una veste, è peccato per il monaco, come è peccato l’ignorare la quantità d’onde o increspature oggi formatesi sopra il letto d’un ruscello, o la screpolatura ovvero asperità dell’ultimo segmento dell’antenna d’una falena. Ma poiché l’uomo è essere finito, e poiché un’onniscienza autentica e perfetta è prerogativa esclusiva di Nostro Signore, e imperdonabile tracotanza sarebbe anche solo aspirarvi, dovere del monaco è costruire nel monastero un mondo ridotto, miniaturizzato, figura in scala dell’universo, su cui esercitare tutto il suo dominio oculare, con un’intensità tale che altra preghiera non vi sia che lo scrutare, né altra occupazione in assoluto.

Simile empietà fu pronunciata con tale charisma che i confratelli, dimentichi d’ogni buon costume o gerarchia, subito esultarono e, con una bestemmia che alle loro orecchie suonava come un inno, elessero il lor compagno immediatamente abate, dimettendosi di sua sponte l’attuale, e inginocchiandosi e piangendo con gli altri.

Non passò un’ora prima che i lavori pigliassero avvio: ogni muro interno venne abbattuto, le celle distrutte, le panche divelte e scaraventate fuori, la mensa dismessa, sicché al volgere del giorno il monastero aveva oramai l’aspetto di vuoto poliedro con un’unica croce appesa alla parete di quella che un tempo fu la chiesa: l’effigie del Salvatore venne schiodata e, in sua vece, vi fu appesa l’effigie d’un enorme occhio, con sotto tre tavolette, ciascuna riportante a mo’ d’epigrafe il detto di Bessarione: nella versione copta la prima, portato in greco la seconda, versato in latino la terza.

Il giorno seguente, ricuperando le panche scaraventate nella prima furia, fu eretta lungo tutte le pareti interne una sorta di scalinata, la quale conduceva a vari gradoni sui quali i monaci potevano sedere e, cólla massima comodità, restar fisi cogli occhi piantati nel centro della stanza, la quale era stata riempita di terra, rocce, animali di vario genere, poi di piante, legni e oggetti metallici raccolti alla rinfusa, e popolata d’alcuni orfani che i furono sant’uomini s’eran trovati anni prima abbandonati alle porte del monastero e che avevan quindi preso seco. Questi, tremuli e atterriti, venivano condotti per mano dagli ossessi devoti di Bessarione i quali, con occhi esorbitanti e un riso che partiva il volto, avocolati deliravano intorno a vista, onniscienza e devozione; venivano i ragazzi poi lasciati in quella sorta di immane terrario, similmente infatti presentandosi quel che un tempo fu dimora a Nostro Signore, e da quel momento cessava ciascuno di rivolgergli parola.

Conclusi i lavori e dismesso il cantiere, le porte del monastero vennero tutte sbarrate, e solo le finestre più alte, per consentire il ricambio dell’aria e il passaggio d’un accenno di luce, furono lasciate parzialmente aperte, mentre tutti i monaci s’assisero sui loro sedili, protetti da una parete in legno che era stata eretta e successivamente coperta di rovi, affinché non balzasse alla mente dei ragazzini di provare a sfondarla o ad arrampicarvisi, parete in cui erano stati ricavati dei fori per gli occhi, in maniera tale da consentire ai monaci di dedicarsi a quell’interminabile scrutinio che avevano eletto a eterna preghiera e regola di vita, una preghiera sì incessante e con la vita a tal segno avviticchiata da far vergogna a quella dei vecchi esicasti d’Oriente.

Tanta follia s’esaurì con poco: codesto rovesciato panopticon, in cui uno sterminato novero di guardiani osserva incessantemente un pugno di prigionieri, che sanno in ogni momento d’essere osservati, codesto teatro collassò in piccolo tempo per chiare ragioni: poiché ignorare un solo istante della vita che si svolgeva nel terrario era peccato, l’assentarsi o astenersene per sonno, nutrimento o funzioni di corpo era inammissibile e, se queste furono da subito espletate sul luogo senza ambagi, e infine, sia pure per pochi istanti prima che l’eccitazione li risvegliasse, financo i più esaltati cedettero alla tirannia di Hypnos, non v’era modo alcuno di nutrirsi o abbeverarsi senza abbandonare il proprio seggio, sicché, già dopo un par di giorni, i più anziani o deboli perirono disidratati, mentre i lor vicini, tentati dalla fame, presero a straziarne le consunte spoglie, pascendosene avidi, senza punto staccare il guardo dagli orfani che, sconcertati e atterriti dallo stato innaturale – o meglio pseudo-naturale – in cui trovavansi, incominciarono per reazione ad aggredirsi e sterminarsi tra di loro, o vennero attaccati da qualcheduno dei cani affamati con cui convivevano, i quali altro così non ottenevano che ritardare ovvero affrettare la sorte comune.

Nello spazio d’un mese, l’orrendo spettacolo era ormai in tutto estinto e, distrutta ogni vita complessa, rimanevano alcuni ragni a pigliar mosche e moscini; qualche isopode rivoltava ancora il terriccio fradicio; le piante vascolari erano tutte marcite per la mancanza di luce, e una mucida, alba coltre stendevavisi sui resti, che giacevano ora assieme a quelli dei devoti che in que’ boschi immolarono la vita ai detti dei Vangeli, e poi a quelli di un altro devoto.

Quando un contadino, ch’era solito vender certi suoi prodotti al monastero, batté alla porta senza ricevere risposta, s’insospettì e, caduti nel vuoto ogni strida o vano sbracciarsi, si risolse a scendere a valle, adunare un manipolo di compaesani, e con questi sfondar l’entrata: per l’orrore che gli si parò dinanzi, trasecolarono le prime fila, mentre le ultime, eccitate dalle urla e dalle bestemmie di chi le precedeva, gareggiavano per meglio vedere, arrampicandosi indifferentemente su alberi o compagni, spintonandosi o battendosi l’un l’altro. Se pure qualche buono stomaco non stramortì sul momento, tutti rimasero ciononondimeno infetti per i tremendi umori che liberarono col loro assedio, e di costoro la più parte finì falcidiata nell’arco d’un anno. Attraverso una di quelle imperscrutabili vie per le quali passano e si diffondono le novelle, fu questione d’un giorno affinché questa giungesse alle orecchie del governatore locale, che ordinò immantinente lo smantellamento del monastero, e ne stese una relazione da mandare a Genova. La Repubblica tentò goffamente di nascondere una simile fatto, ove alla follia dei monaci mescevasi il rischio d’un imbarazzante deterioramento dei rapporti con Roma, ma i suoi sforzi da senza frutto rovesciaronsi in positivamente deleteri, e amplificarono piuttosto che ostacolare l’eco della vicenda in Europa, sicché tosto poté trovarsene traccia senza fatica nella corrispondenza o negli scritti di tutte le maggiori personalità dell’epoca. Carlo de Dottori vi dedicò un poemetto d’occasione, e così Santi-Evremond; La Rochefoucauld si diffuse sull’argomento per alcune pagine delle Memorie, e con lui il cardinale di Retz. Ancora a sessant’anni dalla cosa, Giambattista Vico riservò al caso un trattatello, mentre ad Amsterdam Hartsoeker, rammaricandosi di non aver avuto occasione d’esaminare personalmente i minuscoli artropodi rimasti nel terriccio del monastero, in una nota di un opuscolo giovanile Sugli omuncoli, trasmesso all’Accademia di Berlino, giudicò l’evento «degno delle fantasticherie del Chronicon di Lycosthenes».

Quel che gli uomini non possono, sempre tuttavia lo può il tempo: l’ultima menzione esplicita della storia risale infatti agli anni quaranta del secolo XVIII; oltre quel punto, le tracce della vicenda si fanno tutte labili o perplesse. 

Qualche studioso, sulla falsa riga di Gilbert Lely, ha preteso di ravvisare una remota derivazione del capitolo dei monaci nella Justine di De Sade dalla storia del monastero lunigiano. All’inizio dell’Ottocento, Bentham pare alludervi nel suo epistolario, anche se non vi fa mai schietto riferimento, limitandosi piuttosto a parlare di una «italian abbey of about two centuries ago», mentre, com’è noto, rivendica come proprio il conio del termine panopticon. L’idea di Bentham potrebbe dunque benissimo esser sorta in modo affatto indipendente, e il suo discendere dalla storia del monastero di Q., possiamo ora confessarlo, è del tutto congetturale.

Lorenzo Calvisi è nato in Toscana, ha scritto su Rivista BLAM, Inerba Blog e IpseDixit.

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